I mutilati e gli invalidi della Grande Guerra: il dopoguerra di chi tornò a casa

Quando la Prima Guerra Mondiale finì, per molti soldati italiani il ritorno a casa non significò la fine delle sofferenze.
Migliaia di uomini tornarono senza un braccio, senza una gamba, ciechi, sfigurati o paralizzati, segnati per sempre dal conflitto.

Per loro, il dopoguerra non fu un trionfo, ma l’inizio di un’altra lotta: quella per sopravvivere in un paese che spesso li dimenticò. Parliamo dell’immenso esercito di mutilati e invalidi della Grande Guerra.

Un esercito di mutilati

Si stima che oltre 500.000 soldati italiani siano tornati dal fronte con ferite permanenti.

Le cause principali erano:
Ferite da schegge di artiglieria, che amputavano arti sul colpo.
Gas tossici, che lasciavano ciechi o con problemi respiratori permanenti.
Congelamenti nelle trincee alpine, che portarono a cancrene e amputazioni.
Traumi cranici e danni neurologici, spesso letali o invalidanti.

Molti di loro avevano appena 20 anni quando furono costretti a ricominciare da zero, con il corpo segnato per sempre.

La dura realtà del dopoguerra

Nel 1919, l’Italia era un paese in ginocchio. La guerra aveva lasciato macerie, povertà e un’economia distrutta.

Per i mutilati e gli invalidi di guerra, il rientro in società fu un’odissea:
Molti persero il lavoro, perché non erano più fisicamente in grado di svolgerlo.
Lo Stato fornì aiuti insufficienti, con pensioni di invalidità molto basse.
Alcuni furono emarginati, perché le loro ferite erano un ricordo scomodo della guerra.

In molti casi, chi tornava senza un arto veniva guardato con pietà, ma senza un vero sostegno.

Le prime associazioni di invalidi di guerra

Di fronte all’iniziale indifferenza del governo, i mutilati iniziarono a organizzarsi.
Nel 1917, ancora prima della fine del conflitto, nacque l’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra (ANMIG), che cercava di garantire assistenza e diritti a chi era tornato dal fronte segnato nel corpo.

L’associazione lottò per ottenere:
Protesi gratuite per i mutilati
Pensioni più dignitose
Accesso a nuovi lavori per chi non poteva più svolgere il mestiere di prima

Grazie a queste battaglie, lo Stato italiano iniziò a riconoscere il sacrificio dei suoi veterani, ma le difficoltà restarono enormi.

Le protesi: il primo tentativo di restituire una vita normale

Dopo la guerra, la tecnologia delle protesi artificiali fece passi da gigante.

In Italia nacquero le prime officine ortopediche, dove venivano realizzate gambe e braccia artificiali in legno o metallo.
Alcuni mutilati divennero abili artigiani, imparando a usare gli arti artificiali per lavorare.
Furono sviluppati i primi strumenti per la riabilitazione, per aiutare i feriti a riacquistare un minimo di autonomia.

Tuttavia, le protesi dell’epoca erano rudimentali e scomode. Molti preferivano usare stampelle o carrozzine, perché gli arti artificiali spesso causavano dolore.

Gli “uomini senza volto”: i soldati sfigurati

Tra i mutilati della Grande Guerra, i più sfortunati furono coloro che riportarono ferite al volto, a causa di schegge di granata o proiettili.

Nel primo dopoguerra, questi uomini erano chiamati Les Gueules Cassées (“Le facce spezzate”), un termine coniato in Francia, ma valido anche per i veterani italiani.

Alcuni di loro cercarono di nascondere le loro ferite con:
Maschere di cuoio o metallo, dipinte per somigliare alla pelle.
Scialli e fasce, per coprire il volto.
Occhiali scuri, nel caso di perdita di un occhio.

Molti evitarono di uscire di casa per non spaventare la gente, vivendo nell’ombra.

Uno dei centri più importanti per la ricostruzione facciale fu l’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, dove i chirurghi tentarono le prime operazioni di chirurgia plastica per dare un aspetto più umano ai volti devastati.

Dal dolore all’arte: i mutilati diventano simboli del dopoguerra

Negli anni ’20 e ’30, molti artisti e scrittori raccontarono la vita dei mutilati di guerra, trasformandoli in simboli della tragedia del conflitto.

Uno dei romanzi più celebri fu “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Erich Maria Remarque, che descrive il dramma di chi torna dalla guerra con ferite invisibili e visibili.

In Italia, anche i monumenti ai Caduti iniziarono a rappresentare soldati senza braccia, senza gambe o con il volto coperto, come segno del sacrificio estremo di chi sopravvisse.

Per approfondire:

🔎 Archivio ANMIG – Documenti e testimonianze degli invalidi di guerra italiani. Consulta l’archivio

Conosci una storia di famiglia legata ai mutilati di guerra?

Se un tuo antenato è tornato dalla Grande Guerra segnato nel corpo, raccontacelo nei commenti.

Perché il loro sacrificio non finì con l’armistizio, ma durò per tutta la vita.

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