Tra i tanti modi in cui i soldati cercarono di sopravvivere all’inferno della Prima Guerra Mondiale, uno dei più drammatici e disperati fu l’autolesionismo e l’automutilazione volontaria.
Di fronte alla prospettiva di morire nel fango delle trincee, molti soldati italiani scelsero di infliggersi ferite per essere rispediti a casa. Questa pratica, tanto diffusa quanto severamente punita, rappresenta uno degli aspetti meno raccontati del conflitto.
Perché un uomo arrivava a mutilarsi volontariamente? E come rispondeva l’esercito? L’autolesionismo durante la Prima Guerra Mondiale.
Perché i soldati si automutilavano?
La vita in trincea era disumana:
Sopravvivenza impossibile – Molti attacchi si concludevano con interi battaglioni sterminati.
Freddo, fame e malattie – Il corpo dei soldati si consumava lentamente, tra congelamenti e infezioni.
Assenza di licenze – Alcuni soldati non vedevano la propria famiglia da anni.
Di fronte a questa realtà, alcuni arrivarono a ferirsi volontariamente pur di fuggire dal fronte.
I metodi di automutilazione: farsi male per salvarsi
I soldati usavano metodi estremi per procurarsi ferite abbastanza gravi da essere evacuati, ma non letali.
Colpi d’arma da fuoco
- I più disperati si sparavano alla mano o al piede, fingendo un incidente in battaglia.
- Questo era rischioso, perché le ferite potevano risultare fatali o causare infezioni.
Bruciature con esplosivi o benzina
- Alcuni soldati si ustionavano deliberatamente con la fiamma delle bombe a mano o versandosi liquidi infiammabili sulla pelle.
Ferite autoinflitte con baionette o coltelli
- Un altro metodo era tagliarsi un dito o una parte del piede con un coltello.
- Alcuni cercavano di danneggiare i tendini, impedendo di maneggiare un fucile.
Infettarsi di proposito
- Alcuni soldati esponevano le proprie ferite al fango contaminato per provocare infezioni che li rendessero inabili.
La reazione dell’Esercito: punizioni brutali
L’alto comando militare considerava l’automutilazione un atto di tradimento, al pari della diserzione.
Condanne e processi sommari
- I soldati sorpresi a mutilarsi venivano arrestati e processati per autolesionismo volontario.
- La pena prevista andava dalla prigionia alla fucilazione immediata.
Ispezioni e controlli forzati
- Dopo il 1916, l’esercito introdusse controlli medici più rigidi per distinguere le ferite accidentali da quelle autoinflitte.
- I sospetti venivano interrogati brutalmente e costretti a confessare.
Altri inganni per evitare il fronte
Oltre agli automutilati, esisteva un altro fenomeno: i soldati che simulavano malattie o ferite inesistenti.
Le tattiche più comuni
- Fingere attacchi di epilessia o problemi nervosi.
- Simulare crisi di follia per essere dichiarati inabili.
- Ingerire sostanze tossiche per provocare sintomi di malattie gravi.
La risposta dell’esercito
- I medici militari iniziarono a sospettare ogni soldato malato e spesso li obbligavano a prove fisiche per verificare la loro condizione.
- Molti furono rimandati al fronte con la forza, anche se realmente malati.
Il Dopoguerra: il silenzio sulle vittime della paura
Dopo il conflitto, il fenomeno dell’automutilazione e dell’autolesionismo nella Prima Guerra Mondiale fu dimenticato e censurato.
Nessun riconoscimento per gli automutilati
- Chi era stato punito non fu mai riabilitato, a differenza dei fucilati per ammutinamento.
- I superstiti tornarono con stigma sociale, spesso senza alcuna pensione.
Ricerche storiche recenti
- Solo negli ultimi anni alcuni studiosi hanno portato alla luce documenti militari che dimostrano la diffusione di questo fenomeno.
Il corpo come ultima risorsa per la libertà
Gli automutilati della Prima Guerra Mondiale furono uomini spinti al limite della sopportazione, costretti a scegliere tra una morte quasi certa in battaglia e una ferita autoinflitta.
Oggi, la loro storia è ancora poco conosciuta, ma rappresenta una testimonianza cruda del terrore e della disperazione vissuti nelle trincee.
1 thought on “Automutilati e autolesionismo nella Prima Guerra Mondiale: il dolore per fuggire dal massacro”
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